L’Orsa e il suo Carretto
Round Robin
Da piccolo trascorrevamo abitualmente le nostre vacanze estive in una città nei paraggi di Rimini; erano gli anni 80. Iniziavo ad essere impaziente di partire diversi mesi prima. Pensavo alle giornate che avrei trascorso in spiaggia, ai giochi in riva al mare, alle serate all’Arena Odeon, il cinema all’aperto, alle pizze con gli amici, alle passeggiate sul lungomare che sarebbero durate fino a tardi.
Giorno dopo giorno la mia eccitazione aumentava, e più si avvicinava il giorno della partenza più l’impazienza diventava difficile da sostenere. C’erano momenti in cui potevo sentire nel naso il profumo che emanavano le siepi di pitosforo che mi abbracciavano fino al mare, mi sembrava di ascoltare il tintinnio delle tazzine di caffe del bar proprio di fronte a casa mia, mentre le trasmissioni del Fono Nordovest, che trasmettevano pubblicità verso le spiagge, ci avvisavano che erano le 5 di un caldo pomeriggio. In alcuni momenti mi sembrava addirittura di intravedere lo stesso crepuscolo entrare dalle persiane di casa mia.
Queste vacanze le passavo insieme a mia nonna, a me piaceva moltissimo stare in sua compagnia; era una donna paffutella dagli occhi azzurri e i capelli bianchi. Sono cresciuto e diventato grande grazie alla sua dolcezza infinita, alla sua calma, alla sua capacità di spiegarmi le cose con una semplicità che oggi fatico a ritrovare in ciò che mi circonda. Ho trascorso tutta la mia infanzia e la mia adolescenza in sua compagnia, parlando, chiedendo, discutendo, arrabbiandomi, piangendo e ridendo a squarciagola. Adoravo le passeggiate che facevamo insieme in quel piccolo paese dell’Emilia Romagna. Ricordo che attraversavamo i binari di una ferrovia, vecchia, il più delle volte deserta; io e lei mano nella mano. Oltre i binari ci aspettava una leggera discesa, che dolcemente portava verso i campi coltivati che saremmo andati a guardare; era sempre l’imbrunire quando andavamo a passeggiare, le ore più calde erano considerate proibite.
Camminavamo piano ed io ero affascinato da quello che vedevo; dai papaveri, a migliaia, alle distese di spighe di grano che, mosse dal vento, sembravano onde di un immenso mare dorato; i girasoli mi piacevano tantissimo; all’andata guardavano tutti in una direzione ed al ritorno erano girati verso il tramonto. Ogni volta che andavamo a passeggiare chiedevo a mia nonna se potevamo spingerci un pochino più in là: “ma più avanti cosa c’è? ci possiamo andare? dai per favore!” Lei mi guardava con il sorriso negli occhi e, forse stanca delle mie insistenze, mi accontentava ogni volta. Ricordo che una sera ci spingemmo ancora un po’ più in là del solito ed arrivammo vicino ad una cascina; seduto fuori, su di un mucchio di fieno c’era un uomo che, da lontano, iniziò a guardarci. Sentii la mano di mia nonna che stringeva più forte la mia, come se stesse cercando di capire se fossimo di fronte ad un pericolo. Io guardai l’uomo fisso negli occhi, probabilmente con l’irriverenza propria dei ragazzini, e lui, a sua volta, mi guardò. Indossava abiti che all’epoca mi sembrarono strani; portava un gilet sopra ad una camicia di color chiaro, non capivo se era bianca, almeno se una volta lo era stata. I pantaloni erano molto larghi e risvoltati almeno un paio di volte prima delle caviglie. In testa un cappello marrone che, in alcuni momenti, gli nascondeva in parte il volto. Furono attimi infiniti; camminai per un po’ con la testa rivolta al suo sguardo, fino a quando sentii la mano di mia nonna strattonarmi.
Andammo oltre, guardandoci, di tanto in tanto per capire le reciproche impressioni. Il sorriso di mia nonna, in quel momento, fu la sicurezza più bella del mondo. Al nostro ritorno l’uomo non c’era più; al suo posto c’era il solco lasciato nel fieno. Le sere successive andammo ancora a passeggiare ma non arrivammo mai fino a quel punto. Una sera chiesi a mia nonna se avremmo potuto andare a vedere se ci fosse ancora quello strano signore; fece un po’ di storie ma mi accontentò. Arrivammo alla cascina e lui era lì, seduto sul fieno, con le ginocchia al petto e le braccia che, appoggiate sopra, dondolavano leggermente. Ci guardammo e lui mi fece il sorriso più grande che io avessi mai visto. Rimasi allibito; mi voltai verso mia nonna e vidi che anche lei, con il capo chino, stava sorridendo. Tornammo a casa e pensai tantissimo a quello che era successo; ogni sera mi chiedevo dove fosse l’uomo del fieno, cosa stesse facendo. Perché era seduto sempre lì e perché mi aveva sorriso. I giorni passavano e arrivai al punto di chiedere a mia nonna di poter andare a passeggiare da solo. Lei non mi fece nessuna domanda: molto semplicemente mi guardò e mi disse che ero abbastanza grande per sapere quello che le stavo chiedendo e che ero in grado di capire il motivo per cui non mi avrebbe fatto nessuna raccomandazione. Mi ricordo che la guardai, quella sua faccia rotonda, quei suoi capelli bianchi; la abbracciai e le promisi che sarei stato attentissimo. La sera successiva, con mia nonna che mi guardava, mi misi i mie sandali e uscii. Strada facendo pensai almeno una ventina di volte di tornare indietro ma arrivai fino in fondo, fino alla cascina; avevo una paura nel corpo che mi faceva tremare le ginocchia. L’uomo era sempre lì, seduto su quel mucchio di fieno. Mi fermai un po’ distante e mi dissi che se mi avesse guardato e mi avesse sorriso sarei andato un pochino più vicino. Lo fece, e io dovetti mantenere la mia promessa.
Arrivato davanti a lui guardai quel cappello con sotto degli occhi e lo salutai con un “ciao”. Lui molto dolcemente rispose al mio saluto. Gli chiesi cosa stesse facendo seduto da solo su quel mucchio di fieno; mi rispose che guardava il tramonto aspettando l’arrivo della sera. Io lo guardai; da vicino aveva un volto davvero particolare, scavato dalla fatica; le rughe sembravano incise con un coltello e componevano quasi un disegno, come le venature delle foglie.
“Posso sedermi qui con te?”.. lui mi guardò e disse: “ah dì.. ma sicuro!”. Rimanemmo seduti molto tempo insieme, senza dire una parola.. io di tanto in tanto lo guardavo, e quando lui si voltava a guardarmi mi voltavo di scatto nascondendomi.. Ci furono tante altre volte in cui ci sedemmo insieme ad aspettare la sera, ma non capivo cosa gli piacesse e soprattutto perché gli piacesse così tanto.. Una sera da seduto si sdraiò e mi chiese di fare altrettanto.. “guarda.. nel cielo adesso puoi vedere delle stelle che di giorno non vedi.. Quella è l’orsa maggiore, la vedi? e quella è Dubhe, la stella più luminosa di quella figura che ha la forma di un carretto.. Se tu sapessi quanto davvero sono lontane; la loro luce impiega migliaia e migliaia di anni prima di giungere ai nostri occhi.. Pensa che potremmo continuare a vederle per altre migliaia di anni anche se non ci fossero più.. anche se nel cielo non ci fossero più stelle i tuoi occhi continuerebbero a vederle. Vedi, io ogni sera mi siedo qui e le aspetto, perché sono sicuro che arriveranno ed è l’unica certezza che posso permettermi; perché non so fino a quando potrò sedermi ad aspettarle”. Non ci sono state purtroppo altre sere dove ci siamo seduti insieme ad aspettare la sera. L’ho cercato tanto ma non l’ho mai più trovato.
E’ stato un uomo davvero importante nella mia vita. Le sue parole si sono impresse a fuoco nel mio cuore e nella mia mente e mi hanno raccontato di quanto sia facile non apprezzare ciò che si ha nell’esatto istante in cui lo si ha. Mi ha insegnato che perdere questa semplicità avrebbe significato perdere momenti che non sarebbero mai più tornati. Quelle parole, quei sorrisi, quegli sguardi sono tuttora presenti nella mia mente e nel mio cuore.
Ancora oggi mi capita di guardare le stelle; ancora oggi, tra queste stelle, cerco quel cumulo di fieno.