La Serratura
Alessandro Bertolini
La telefonata di Barbara giunse mentre stava portando a termine gli ultimi acquisti natalizi in centro a Milano. Guardò il cellulare con riluttanza: non aveva voglia di sentire la sua voce stridula. Avrebbe blaterato qualcosa a proposito dell’idea di trascorrere separati la vigilia di Natale, il loro rapporto non ne avrebbe giovato, bisognava preservare almeno le apparenze… Non era da escludere il tentativo di metterlo in difficoltà con la richiesta di accompagnarla a cena dai suoi: sarebbe stato imbarazzante perché lo ritenevano il responsabile unico dell’infelicità della figlia. Fu anche peggio. Con parole furenti, scoccate come frecce al curaro, lo aveva lasciato. Giorgio corse all’appartamento di periferia che condividevano, per parlarle guardandola negli occhi, abbracciandola per impedirle di allontanarsi da lui.
Giunto sul pianerottolo, infilò la chiave nella serratura, ma questa non scattò. Bussò alla porta, senza ottenere risposta. Ipotizzò che Barbara fosse sotto la doccia e non sentisse. Si attaccò al campanello, ma nessuno aprì. Riprovò con tutte le chiavi del mazzo, scosso al punto da non ricordare quale fosse quella giusta. In un’istantanea mentale vide papà Osvaldo cambiare la serratura; Giorgio non aveva mai goduto della simpatia del suocero e ne ebbe conferma.
Rinunciò e, ancora incredulo e frastornato, si diresse a casa dei suoi genitori con cui avrebbe trascorso la sera della Vigilia, secondo programma. Festeggiò con loro, cercando di non far trasparire il suo disagio. Il Natale era sottotono da quando il nucleo famigliare si era ridotto drasticamente, sfrondandosi di nonni e bambini, ma quell’anno fu vuoto in modo insostenibile.
Scambiati i regali salutò i genitori anche a nome di Barbara, salì in macchina, percorse qualche chilometro in stato confusionale e si fermò in un motel sulla provinciale, frequentato per lo più dai clienti delle prostitute, pochi in quella sera particolare. Una volta in camera, gettò il giubbotto su una poltroncina di colore indefinito, in nuance con tappezzeria, copriletto e tende, e si chiuse in bagno. Vomitò la cena con conati violenti, a causa della tensione accumulata e non sfogata. Si sciacquò il volto e la bocca e si accasciò a terra, con la schiena appoggiata alla tazza del cesso. Con la testa stretta tra le mani, costruì ogni congettura pur di trovare uno spiraglio di luce, una speranza qualsiasi nelle ultime parole pronunciate, più che altro ringhiate da Barbara: “per me sei morto”. Non ci riuscì. Non gli aveva consentito di ribattere, l’aveva colto di sorpresa, l’aveva paralizzato con la sua aggressività.
La sensazione di impotenza, vissuta di fronte alla porta chiusa con una chiave a lui negata, manco fosse un ladro, aggravata dall’impossibilità di comunicare per chiarire o per insultarla, si alternava all’incredulità per ciò che era accaduto, per il comportamento da sgualdrina, per il trattamento che gli aveva riservato. Le sue emozioni si stavano gonfiando, generando un’energia potente che, se non espressa, l’avrebbe distrutto. Lacrime di rabbia gli bollirono gli occhi e cominciarono a scappargli tra le dita. Sentì affiorare un desiderio di vendetta e, come su uno schermo, gli apparvero diverse idee per soddisfarlo. Tutte ben oltre i limiti del lecito.
“Buon Natale!” sibilò tra i denti.
Giorgio uscì di buon mattino dopo la notte insonne. Camminò lungo la provinciale e raggiunse un bar. Una lavagna prometteva a colpi di gesso pranzo a menù fisso per 12 euro, vino e acqua inclusi. La vetrinetta delle brioche era vuota, fatta eccezione per un reperto alla marmellata di dinosauro. Ordinò un caffè, lo terminò in due rapidi sorsi, pagò e se ne andò augurando buone feste all’oste. Si accese la prima sigaretta della giornata, una di quelle indispensabili dopo il caffè. Fece ritorno in motel, elargì alla receptionist il suo miglior sorriso commerciale e si chiuse in camera.
Doveva parlarle anche se lei non voleva, non poteva certo finire così. Prese il cellulare lasciandolo attaccato al cavo, com’era rimasto tutta la notte, cercò il comando per nascondere il proprio numero e chiamò Barbara.
Rispose una voce assonnata: “Pronto, chi parla?”.
“Sono io, Barbara, ti prego non riattaccare”, si precipitò a dire, seppur con tutta la calma di cui era capace.
“Cosa vuoi?” lo aggredì, con lo stesso astio della sera precedente.
“Ho bisogno di parlarti, di vederti…”.
“Io no”, tagliò corto lei.
“Senti Barbara, sono stanco del tuo atteggiamento, da un bel pezzo a dire il vero. Non ho alcuna intenzione di litigare con te, né ora né mai più; ho già dimenticato il nostro rapporto e il modo infame con cui l’hai chiuso. Ma si dà il caso che io abbia abitato con te per due anni e qualche oggetto mio, a cui tengo molto, sia chiuso in un appartamento di cui non ho la chiave”.
“Hai trovato chiuso, amore?”.
Giorgio stava per perdere la pazienza, ma riuscì a nasconderlo dietro un velo di rassegnazione: “Ok, ho capito l’antifona. Va bene se passo nel pomeriggio a prendere le mie cose?”.
“E passa! Dopo le quattro”. E chiuse.
Non aveva mai passato il Natale da solo e attendere le quattro non fu semplice. Parcheggiò dall’altro lato della strada, da dove poteva vedere il balcone su cui aveva trascorso tante ore, soprattutto di notte, perché lei non gli consentiva di fumare in casa. Si stupì di come potesse sembrargli estraneo quel luogo, a poche ore dal suo allontanamento coatto. Non c’era nessuno in giro, erano tutti riuniti a mangiare e bere, a giocare e divertirsi con le persone amate. Una fitta di gelo lo attraversò lungo la spina dorsale; si sentì solo, abbandonato come un cane in autostrada, ed era tutta colpa loro.
Scacciò quei pensieri, liberò la mente e indossò la sua maschera di circostanza. Attraversò la strada deserta, camminando nel pantano causato dalle nevicate recenti. Si avvicinò al portone e cercò il proprio cognome sul citofono. C’era ancora, il buon Osvaldo non aveva avuto il tempo per fare le cose di fino. Un trillo metallico accompagnò l’apertura del portone, entrò e salì al sesto piano con l’ascensore. Prima di uscire, fece qualche prova di sorriso, come ad un casting per uno spot pubblicitario.
Barbara era sulla soglia e lo invitava ad entrare, come se nulla fosse. Non c’era cattiveria nella sua espressione. Giorgio pensò che vederlo l’avesse addolcita, magari si era pentita… No, probabilmente le veniva più facile aggredirlo se fra i due c’era il telefono.
“Ciao, non ti chiedo come stai perché sono una signora”.
Giorgio alzò un sopracciglio con fare sarcastico.
“Ciao, prendo due cose e me ne vado, tranquilla. Mi devo organizzare per ritirare gli abiti, le scarpe, i giacconi: verrò un’altra volta per quelli”.
“Io sono tranquilla…”. Dopo una breve pausa, si sedette alla scrivania. “Giorgio, non ho avuto scelta. Tu sei impossibile. Sei troppo geloso, vedi marcio ovunque. Guarda le tue email”, disse porgendogli un plico di fogli stampati. “Fai scenate per una scollatura, mi accusi di tradimento, offendi i miei amici. Addirittura minacci il suicidio per farmela pagare!”.
“Queste le prendo io, se permetti”, scattò Giorgio.
“No, Giorgio, le tengo io. E una copia ce l’ha il mio avvocato”.
“Ah, quello che ti corteggia?”.
“Non ti rispondo nemmeno”. Barbara lo fissava con compassione.
“Lascia stare, sono un po’ scosso”, disse lui rendendosi conto dell’autogol.
Giorgio distolse lo sguardo da lei e cominciò a racimolare un po’ delle proprie cose. Vide alcuni libri da cui non si sarebbe mai separato. Vicino allo stereo, una pila di CD lo chiamava perché voleva andare via con lui. Lo stesso accadde con i DVD, alcuni dei quali rappresentavano ciò che per Giorgio era l’essenza della cinematografia.
“Porto via solo qualche libro e i miei CD; se mi dai una mano carico la televisione in auto…”
“Spero tu stia scherzando!”, inveì alzandosi in piedi.
“L’ho pagata io, Barbara, è mia”, disse Giorgio adducendo la spiegazione più logica.
Barbara afferrò furiosamente il cellulare e dopo qualche secondo disse: “Pa’, corri qui, per favore. Giorgio mi vuole svuotare casa”.
Questa situazione ha dell’assurdo. Mantieni la calma. Hai già fatto un passo falso, fa’ che sia l’ultimo.
Giorgio analizzò i titoli dei libri e riempì uno scatolone con quelli che gli interessavano. Ogni volta che ne prendeva uno, le chiedeva, non senza ironia, se avesse il permesso di farlo o se fosse passibile dell’accusa di furto.
Quando arrivò Osvaldo, aveva già riempito tre scatoloni. Si guardò intorno. Aveva l’aria soddisfatta quando il proprio sguardo colpiva spazi vuoti creati nella libreria, sulle mensole, nella vetrinetta. Era il segno che lui aveva vissuto lì; era il vuoto che sperava di provocarle nell’anima.
“Buongiorno”, esordì il padre.
“Buongiorno al fabbro”, rispose Giorgio.
“Cosa intendi dire?”, mal simulando la sua sorpresa.
“Osvaldo, non reciti con me. Chi può cambiare così velocemente una serratura alla vigilia di Natale, se non lei?”.
“Ok, d’accordo, ma non capisco perché te la prendi tanto”.
“Io? Me la prendo? Perché dovrei? Del resto sono stato trattato come un ladro in casa mia!”.
“Giorgio, per cortesia, non urlare”. Alzava le mani come per difendersi da un’ondata di energia.
“Sono incazzato nero, urlo quanto mi pare!” esplose. “E voi siete… delle brutte persone”, frenando il proprio impulso.
“Come ti permetti? Mia figlia è una santa!”, reagì il padre, anche se il tono della sua voce lasciava trasparire un certo timore. Prese coraggio e continuò: “Tu l’hai distrutta con il tuo modo di fare, per il solo motivo di essere fatto… come sei fatto, ecco! Vattene da questa casa, prendi i tuoi stracci e non farti più vedere”. Osvaldo indicava la porta con fare teatrale.
“Con piacere. Ma non siete voi ad allontanarmi: sono io che me ne vado, il più lontano possibile dall’ignoranza e dalla follia”. Scandì le ultime parole perché rimanessero incise nelle pareti di quella stanza.
Si dirigeva con passo deciso verso la porta quando Barbara lo richiamò e, con tono di scherno, gli ricordò gli scatoloni. Giorgio si girò lentamente, incredulo di essere deriso ancora una volta. Con la pretesa che fosse l’ultima la guardò nauseato e le rispose: “Sei una pezzente, puoi tenere tutto. Consideralo il mio regalo di Natale!”.
Sparì sbattendo la porta, scese di corsa le interminabili rampe rischiando di inciampare più volte, salì in auto e raggiunse il suo motel guidando come uno squilibrato.
Aveva salutato Paolo, il suo unico amico, dopo aver trascorso una serata a senso unico: gli aveva raccontato tutto, o quasi, degli ultimi eventi, senza dargli possibilità di replica. Aveva descritto in ogni dettaglio l’allontanamento da casa, la serratura cambiata, il trattamento subito; aveva omesso la parte degli insulti che aveva rivolto a padre e figlia. Tornando verso il motel, senza accorgersene si ritrovò sotto la casa. Non capiva come fosse potuto accadere: forse era colpa dell’abitudine, del resto aveva abitato lì fino al giorno prima, oppure aveva una missione da compiere e se ne rendeva conto solo in quel momento.
Le tre birre bevute in compagnia gli avevano offuscato le idee, sottraendo realismo all’ambiente, come se il quartiere fosse la scenografia di un sogno; gli avevano anche gonfiato la vescica in maniera insostenibile, per cui decise di accostare e liberarsi dietro ad un albero. Guardandosi attorno per accertarsi di essere solo, vide l’auto di Barbara parcheggiata nello spiazzo antistante l’abitazione. Smise di armeggiare con la cerniera dei jeans e si avvicinò. Sbirciò dai finestrini congelati, vide il solito disordine, una carta stradale, copertine di CD gettate sui sedili, una rivista di gossip e… un berretto. Un berretto da uomo. Improvvisamente tutto gli sembrò chiaro e lo colpì al petto come le piastre di un defibrillatore. Ha un altro, ecco perché è stata così risoluta. Non avrebbe avuto la forza di lasciarmi, quella vigliacca.
D’impulso si aprì i pantaloni e pisciò sulla portiera dell’autista, indirizzando il getto sulla maniglia. Una sottile scia di fumo, causata dal liquido caldo a contatto con la lamiera ghiacciata, gli fece pensare di aver acquisito qualche potere sovrumano, potendo pisciare acido corrosivo. Quel gesto gli fece virare l’espressione del viso dal disgusto alla soddisfazione.
Risalì in macchina, si accese una sigaretta e si diresse verso il motel. Guidava con uno strano sorriso sul volto, come se si stesse gustando la scena della mattina seguente, quando si sarebbe sporcata le mani aprendo la vettura. Improvvisamente si rese conto della stupidità del proprio gesto: lei non si sarebbe accorta di nulla, vanificando così la sua effimera soddisfazione. Doveva fare qualcosa di più incisivo, con conseguenze durevoli. Un’azione che le avrebbe rovinato la giornata.
Sarebbe comunque poco, visto che a me ha rovinato la vita.
Fece inversione alla prima rotonda e tornò nel parcheggio sotto la casa. L’eccitazione lo stava assalendo, l’adrenalina era in competizione con l’alcol nel sangue, affilando la sua lucidità. Scese dall’auto e pose molta più attenzione di prima al contesto. I lampioni illuminavano debolmente il piazzale, l’umidità sospesa si stava ghiacciando e la visibilità era ridotta. Rifletteva sull’ipotesi di essere sorpreso: nessuno l’avrebbe messo in galera per un eccesso di diuresi, ma per un atto vandalico si sfociava nel penale. Guardò a destra, nessuno in arrivo. Guardò a sinistra, nemmeno da lì arrivava nessuno. Guardò lo stabile e proprio in quel momento si accese la luce sul balcone del sesto piano, a cui si accedeva dalla sala. Era in casa. E non era sola. Dietro le tende si intravedevano due sagome: una piccola ed esile, femminile, ed una molto più alta, maschile.
Mister berretto!
Di nuovo fu invaso dalla furia. Il pensiero del nuovo amico di Barbara che dormiva nel suo letto, nelle lenzuola che le aveva regalato per il primo anniversario, gli contorceva lo stomaco.
Si avvicinò all’auto con l’intenzione di incidere il suo odio su cofano e fiancate. Continuava a girarci intorno, pensando a come fare un bel lavoro, come creare un’opera d’arte che potesse esprimere appieno i suoi sentimenti. Avvicinava il chiodo alla lamiera ma poi, indeciso, lo ritraeva. Gli sembrava che un graffio non fosse sufficiente a manifestare la sua ira; pensava che sul viso di lei sarebbe stato molto più efficace. Tergiversava, spostandosi dal cofano alla portiera destra, accovacciandosi di fianco alla portiera sinistra, per poi tornare al cofano. Udì dei passi provenire dal lato opposto della strada. Si alzò di scatto e si diresse verso la propria macchina. Stava per entrarvi quando lo sconosciuto lo chiamò, per nome. Giorgio si sedette al volante e si chiuse dentro azionando la sicura.
Un uomo sulla trentina, alto e ben piazzato lo guardava attraverso il finestrino e gli indicava di abbassarlo. Giorgio ubbidì, vincendo l’impulso di scappare.
“So chi sei e cosa stavi per fare. Sai chi sono io?”, esordì lo sconosciuto con voce profonda.
“Il nuovo fidanzato di Barbara?” suppose.
“No, sono il cugino”.
Barbara gliene aveva parlato, gli aveva raccontato del cugino napoletano, quello campione di arti marziali che già era intervenuto contro il fidanzato precedente.
“Davide, se non sbaglio”, pronunciò il nome, sperando che aiutasse ad addolcire la situazione.
“Già. Senti Giorgio, non ho voglia di farti male, per cui vedi di stare lontano da qui”.
“Non ci riesco…”.
“Cosa significa? Perché fai così?”.
Giorgio era sempre stato un ottimo attore e ne diede prova anche in quell’occasione.
“Davide, io amo tua cugina, più di me stesso. Puoi immaginare che male possono farmi i tuoi pugni? Non sarebbe nulla al confronto del dolore che ho dentro”. Una lacrima gli rigò il lato del naso.
“Capisco. Beh, io ti lascio stare, ma ora tu giri la macchina e te ne vai. E non ti fai più vedere. Siamo d’accordo?”.
“Siamo d’accordo”, fece eco Giorgio.
Si asciugò platealmente le lacrime con i palmi delle mani, accese il motore, salutò Davide con espressione di triste gratitudine e si allontanò.
Giorgio guidava in direzione del motel. Rideva forzatamente, come se dovesse raschiare la gola con dei cocci di vetro. Aveva beffato il cugino di Barbara con la banale interpretazione dell’innamorato devastato di dolore. Rideva e si guardava nello specchietto retrovisore, per capire che effetto avrebbero fatto i suoi occhi a chi li avesse incrociati. Si chiedeva se le fiamme che sentiva divampare dietro i bulbi oculari fossero visibili anche all’esterno. Parlava rivolgendosi all’autoradio che gli rispondeva come se non l’ascoltasse, ma lui insisteva.
Quel Davide, davvero un bel tipo. Il cugino protettivo: bel ragazzo, ma scemo. Ah ah ah! L’ha bevuta alla grande. È sceso per suonarmele e gli ho fatto cambiare idea in un attimo, facendogli credere di essere distrutto per aver perso l’amore di quella stronza. Ah ah ah.
“Oh yes, I am the great pretender”, cantavano i Queen.
Esatto! Anche perché “pretender” non significa pretendente, e nemmeno pretenzioso, ma impostore. Come sono stato io poco fa, un grande attore! Però, c’è qualcosa che non torna. Come aveva detto Barbara? Sì, ora ricordo: non era suo cugino, era il cugino della madre. E lei era stata al suo matrimonio quando era ragazzina. Oggi Davide dovrebbe avere quasi cinquant’anni! Quell’armadio era il suo amante, lo sapevo che se la faceva con un altro. Che fesso sono stato. Pensavo di averlo imbrogliato e invece sono loro che si sono presi gioco di me.
Era talmente assorto nei suoi pensieri che non sentì nemmeno il clacson di un camion che l’aveva schivato per un soffio quando Giorgio aveva tirato dritto ad uno stop.
Com’era quel passo della Bibbia? “Allora Dalila disse a Sansone: Ti sei preso gioco di me e mi hai raccontato bugie; con cosa ti si potrebbe legare?. Ed egli le rispose: Non dovresti che intrecciare le trecce del mio capo con l’ordito. E i Filistei gli cavarono gli occhi.” Questa storiella mi ispira molto. Potrei bloccarle la testa legandole i capelli al termosifone e con un coltello farle saltare un occhio, cadrebbe sul pavimento come un uovo in padella.
“Blue eyes, Baby’s got blue eyes”, era il turno di Elton John.
L’autoradio cominciava a rispondere a tono.
Ma che stai dicendo? Dio, che schifo. Non saresti mai in grado di fare una cosa del genere.
Hai ragione, allora facciamo così. Domani sera andrò da lei e mi aprirà la porta, la sua boria sarà il suo nemico. Sarà mia per l’ultima volta, che lo voglia o no. Se mi rifiuterà sarà ancora più divertente. In tal caso dovrò legarla, come a volte mi chiedeva di fare. Ma stavolta sarà diverso, sarà molto più vero. Userò il tavolo della cucina. Un arto per ogni gamba del tavolo e poi farò di lei quello che mi andrà. Bisognerà imbavagliarla, altrimenti qualche vicino potrebbe sentire. Naturalmente deve essere sola, non vorrei mai che Davide, ringiovanito di vent’anni, assista alla nostra scenetta.
E poi? È chiaro che poi ti denuncerà. Finché eravate insieme potevi anche cavartela, dicendo che stavate facendo un giochetto, ma adesso è troppo rischioso.
Finirei in galera per aver stuprato la mia fidanzata. Non mi sembra proprio il caso. Non mi deve vedere nessuno, non ci devono essere testimoni, non devo lasciare tracce e lei non deve parlare. Sarà sufficiente spaventarla, minacciarla.
Non credo proprio. Bisogna farla fuori.
La devo ammazzare? Così invece di qualche anno di galera ci passerò il resto dei miei giorni.
Beh, basta trovare un buon alibi per non finire in prigione…
“…everybody in the whole cell block was dancin’ to the Jailhouse Rock”
Elvis, ti ci metti anche tu?
Si ritrovò al motel senza ricordare alcuna immagine della strada percorsa. Si buttò sul letto sfatto e continuò il suo sogno delirante.
La sera successiva, malgrado gli avvertimenti del finto cugino, era di nuovo sotto le finestre di Barbara. Voleva trovare il modo di salire, di entrare in quell’appartamento maledetto. Voleva trovarsi lì, nel loro salotto, lui e lei da soli. Rimase per un’ora abbondante a studiare i movimenti dietro le tende, fumando una sigaretta via l’altra. Sembrava che in casa ci fosse solo lei, di Davide non c’era ombra. Non poteva commettere altri errori e non aveva bisogno del fattore sorpresa per fare quello che doveva fare. Non poteva certo sfondare la porta d’ingresso, né calarsi sul balcone dal tetto: cadere dal sesto piano non era tra le sue ambizioni. Quindi suonò il campanello, come aveva fatto il giorno di Natale, e attese di sentirla gracchiare.
“Chi è?”.
“Sono io Barbara, sei sola?”, azzardò subito Giorgio.
“Vedo che Davide non ti ha spaventato abbastanza. Che vuoi stavolta?”.
“Voglio parlarti, liberamente, e vorrei che facessi lo stesso anche tu. Non possiamo chiudere così una relazione come la nostra. Parliamo da soli, senza l’interferenza dei tuoi parenti, vuoi?”.
Giorgio aveva sfoderato tutta la sua diplomazia e puntato molto sul timbro della propria voce. Sperava di sortire qualche effetto su di lei, non avendole ancora lasciato modo di dimenticarlo.
“Stavo per andare a dormire…, e non mi fido di te”.
“Manda un SMS a tuo padre per dire che sono qui così stai più tranquilla… Cosa vuoi che faccia? Hai paura che ti violenti?”
“Se ci provi ti spacco in due”, disse lei, senza riuscire a nascondere una risatina divertita. “Dai, sali. Cinque minuti, d’accordo?”.
“D’accordo. Grazie”, rispose lui.
Salito al piano, Giorgio trovò la porta socchiusa, mise dentro la testa: è permesso? Barbara era seduta sul divano, quello che avevano acquistato quando progettavano una vita insieme, quando ogni parola era accompagnata dal sorriso e ogni gesto era scaldato dal desiderio. Richiuse la porta alle sue spalle e raggiunse il centro del salotto. Si guardò intorno, smarrito: i mobili erano stati spostati, rendendo estraneo l’ambiente che lo circondava. In un angolo erano accatastati degli scatoloni, su cui un pennarello aveva annotato il contenuto: camicie, pantaloni, scarpe, giubbotti, mutande… doveva aver passato la giornata a ripulire gli armadi dagli oggetti personali di Giorgio. Fu quello il momento in cui prese davvero coscienza di essere tagliato fuori dalla sua vita, senza possibilità di recupero. Non era in grado di gestire il proprio dolore, da solo. La persona a cui avrebbe chiesto conforto era seduta di fronte a lui con aria indifferente, ed era la stessa persona che gli aveva provocato la sofferenza. La rabbia lottava con la malinconia e stava perdendo. Non riuscì a frenare l’impulso di fare un ultimo tentativo.
“Barbara… questa situazione ha dell’assurdo. Secondo me è frutto di un malinteso. Com’è possibile che sia finito tutto così, dall’oggi al domani? Io ti amo, lo sai…”. Si rese conto che le sue parole suonavano stucchevoli e sterzò bruscamente: “… e ti stimo tanto!”.
“Mi ami? E mi stimi? Sono passate poche ore da quando mi hai dato della pezzente, ignorante e pazza! Come vedi ho una buona memoria e purtroppo ci metterò del tempo a dimenticarti. A dimenticare la tua arroganza, la tua falsità, la tua ipocrisia. Farò fatica a rimuovere il male che mi hai fatto in questi due anni. Tu sei un vortice nero; con il tuo pessimismo e la tua avversione a ciò che è vita mi stavi trascinando sempre più giù. Se Dio vuole la mia famiglia mi ha svegliata. Ho dovuto allontanarti per la mia sopravvivenza. Ora, per cortesia, dimmi quello che volevi dirmi e vattene. Non mi fa bene averti qui”.
Barbara appariva molto determinata, non c’era più ritorno. Non c’erano più parole che potessero salvare la situazione. Un rigurgito di rabbia gli fece vedere tutto chiaro. Non c’era nulla da recuperare e non era sua intenzione provarci. Non voleva stare con quella donna che l’aveva offeso profondamente nell’orgoglio. E non sopportava l’idea che lei potesse cominciare una nuova vita. Non poteva permettere che non pagasse per quello che gli aveva fatto. Non poteva consentire che lei ne uscisse a testa alta e fosse felice, senza di lui, con un altro.
La follia prese il copione in mano e gli suggerì le battute. Ora Giorgio sapeva cosa fare.
“Hai ragione. Potevo scriverti una lettera, ci ho pensato, ma ho preferito dirti addio guardandoti negli occhi. Vieni qui, per favore”.
La invitò ad alzarsi e le fece cenno di seguirlo.
“Tu sei l’unica donna che io abbia mai amato. Non avevo mai provato un sentimento tanto forte prima di conoscerti e non ho saputo gestire la novità, l’immensità delle emozioni che la tua presenza mi faceva vivere”.
Ad ogni frase, guadagnava un passo verso la cucina.
“Io non voglio perderti, ma mi rendo conto che ormai non sei più mia. Per dimostrarti quanto ti amo, ti lascerò libera di vivere la tua vita, e mi auguro che tu lo faccia al meglio. Per farmi perdonare, ti ho portato un regalo. Guarda”, disse indicandole la finestra.
Titubante, Barbara si avvicinò alle tende e le scostò per vedere a cosa alludesse. Non gli voltava del tutto le spalle, percependo dentro di sé un allarme, come accade agli animali quando fiutano la trappola. La sua prudenza non fu sufficiente. Appena Barbara guardò di sotto, Giorgio estrasse un coltello dal ceppo posto sul ripiano della cucina e la trapassò nel collo, poco sopra la clavicola, entrando e uscendo con tutta la lama. Barbara si girò e si aggrappò alle sue spalle. Lo fissava con occhi colmi di stupore e paura. Dopo pochi secondi che a lui parvero eterni, emise un gorgoglio roco e si accasciò al suolo in mezzo ai suoi piedi.
Giorgio sentì una nube di panico svilupparsi nella sua testa, mentre una pozza di sangue si allargava velocemente sul pavimento. Intravide la propria figura riflessa nel vetro della finestra. Stentava a riconoscersi, imbrattato di sangue in viso e sul petto, gli occhi spalancati come i fari di una macchina infernale. Cominciò a vagare per casa. Camminava avanti e indietro per il salotto. Si guardava le mani insanguinate e se le puliva sui pantaloni .Ogni due passi si fermava e blaterava qualcosa.
Mio Dio cos’hai fatto? L’ho uccisa, l’ho uccisa. E ora? Nulla, mi beccheranno. Sono l’indiziato numero uno. Le impronte, devi cancellarle. Ma no, quello non è un problema. Vivevo qui, è pieno di impronte mie. Il sangue, devi ripulirti dal sangue. Fatti una doccia. No, no, devo andarmene subito, prima che arrivi qualcuno. Ma dove vai? Dove credi di scappare? Sei pazzo Giorgio. Potrai scappare da Osvaldo, da Davide, dalla polizia, ma non potrai fuggire da te stesso, dalla tua follia che ormai ti riempie ogni molecola. Hai ragione, è inutile scappare, è tutto inutile.
Improvvisamente si fermò in mezzo alla sala, un’immagine gli aveva mostrato la soluzione.
Con sguardo assente si diresse verso la portafinestra. Ruotò la maniglia e uscì sul balcone. Salì in piedi sulla balaustra. Non sentiva il vento freddo di quella sera dicembrina, non aveva alcuna percezione del proprio corpo. Non voleva avere un corpo. Si lasciò cadere nel vuoto, in silenzio; le braccia spalancate ad abbracciare il suolo, come volesse ricevere dalla Terra l’amore che gli era sempre mancato.
Credits
and special thanks
- Groove Grove Kevin MacLeod (incompetech.com)
- As I Figure Kevin MacLeod (incompetech.com)
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